Lidia Vaitarosa

Lidia Vaitarosa (n.1947, Milano) , oggi meglio conosciuta (assieme a numerose, piu` anonime figure) come la barbona di Cadorna. Arrogante, stupida, pazza e insolente. Di famiglia materna ex aristocratica, con la madre nevrotica e soggetta a crisi d'ansia, unica figlia dopo cinque aborti, venne cresciuta a vizi e rosari. Il padre, un vacuo banchiere per destino dinastico, la ignorava riempendola di balocchi; la nonna, una fascistissima vecchia storpiata da una provvidenziale poliomielite, le faceva ricopiare interi quaderni di citazioni del De Amicis prima e di Alfredo Oriani poi.

Ventiquattrenne, la giovane Lidia avrebbe potuto contare gia` su un carne` di rendez-vous: non era infatti brutta affatto, nonostante il carattere irritabile e la naturale alterigia le tendessero il viso gia` affilato in una sorta di mascherina cubista. Ma il condizionale e` d'obbligo, che` un persistente vaginismo e il cattolicesimo istigatole le rendevano impossibile non solo il coito, ma qualsivoglia soddisfazione. Questo non fece che peggiorare la sua situazione. Durante la festa del venticinquesimo compleanno, a causa di una minuscola impertinenza, defenestro` letteralmente l'imbelle ennesimo fidanzato: l'intervento dei parenti evito` ogni intervento di polizia (il gagarone se la cavo` con un paio di costole rotte, un'automobile in cambio del silenzio, e un lesto ritorno alla frequentazione della cugina).

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Lidia venne dunque tolta da Milano e, tramite la raccomandazione di alcuni gesuiti, mandata all'universita` di Venezia, dove incontro` al corso di filosofia medioevale un curioso pretino: un uomo dal naso aquilino, gli occhi infossati e le sopracciglia troppo folte, i capelli raccolti in mezza dozzina di ciuffi corti e contorti. La mano destra era atrofizzata. Emanava un odore muschioso, stantio, aromatico. Lidia era gia` fuori corso, ma costui era maturo al limite del vecchio, sebbene in effetti avrebbe potuto avere ogni eta` tra i trentacinque e i sessantacinque anni. Immediatamente la disgusto` e l'attrasse. Unico tra gli studenti, lui non la guardava mai: unica tra gli studenti, lei gli rivolse la parola.

Nei mesi invernali, zuppi d'acqua alta e bacari troppo affollati, Lidia e il pretino si frequentarono, nel modo congeniale a loro: egli, novello Rasputin, la avvolgeva di profezie roboanti e oscure, di chiare previsioni di totale dannazione, sputacchiando rauco dai denti gialli; lei gli confidava il disprezzo per gli uomini, per la famiglia (esclusa la nonna, verso cui provava ancora, a pochi anni dalla morte, un timore reverenziale), per Milano. Lui le prometteva una vita di santita`, di austerissima dedizione: iniziarono a dedicarsi, nottetempo, a opere di volontariato nei confronti dei senzatetto, in cui discriminavano senza mezze misure i meno devoti e i piu` ubriaconi, poiche` non tutti certo erano degni della salvazione: un minimo di volonta`, perdio.

Il giorno di Pasqua lui rifiuto` di aprirle la porta: Lidia busso` e busso` (il campanello era rotto e non aveva telefono), strillo`, si indispetti`, lo insulto` acremente e solo a notte lui apri`, tossendo, lo sguardo torvo: le mostro` le mani, malamente forate e sporche di ruggine: del sangue scorreva dai suoi palmi. Sul tavolo dietro si intravedeva un chiodo insanguinato, ma lei non se ne accorse. Richiuse la porta di legno grugnendo senza una parola. Svegliando l'intero calle lei ribusso`, riurlo`, cadde in lacrime e si inginocchio` alla porta gridando Santo santo santo, ti prego santo mio, fammi entrare santo mio. Lui riapri` e la spazzo` via con un calcio, sbraitando via via, troja, non vedi che il Signore mi punisce perche` mi tenti?. Lidia si getto` ai suoi piedi, inzaccherandosi ulteriormente il pullover azzurro sbiadito, perdendo le scarpe sgraziate che rivelavano dei piedi venosi dalle dita troppo lunghe, ti prego, tu fai bene a rifiutarmi, io sono una meretrice: ma tu sei un santo, perdonami e io ti portero` al cielo. Lui la fece entrare e, come aveva previsto, lei divenne la sua cagna.

Da quella Pasqua la vita di Lidia fu votata in interezza al pretino. Di giorno si trattava di parlarne con parroci, uomini di chiesa, gesuiti e financo Opus Dei, mostrando le foto delle stimmate, obbligando loro con minacce a studiare le omelie confusionarie che sbobinava in notti senza sonno, raccomandandone l'opera di carita`: per sfinimento racimolo` da certi annoiati imprenditori una insospettabile quantita` di fondi, che consegnava al pretino per le opere di bene: lui accettava sospirando, si segnava e borbottava qualche falsa sigla di carita` a cui consegnare la somma. Fece pubblicare a sue spese -e diffondere- alcune opere che collazionavano i rigurgiti spirituali dell'ometto: il primo si intitolava Espiazioni quaresimali, il secondo La carezza e il pugno di Gesu` sull'amore e sul peccato, e altre corbellerie: edizioni dozzinali, tipografate precariamente, che finivano a dilavarsi al sole nelle stazioni ferroviarie. Fini` per vendere il suo intero patrimonio, darlo ai poveri, o meglio, a un'agenzia che il suo pretino gestiva, i cui denari finivano in non meglio precisate "opere d'assistenza agli ammalati" -purche` di chiarissima fede cattolica e di famiglie rispettabili: inutile dire al lettore che quasi nessun ammalato venne mai assistito con essi denari, anche se alle volte il pretino aveva l'accortezza di portarla a vedere un qualche malatino, un qualche decenne brianzolo col mal di cuore, e lei sorrideva con i suoi denti troppo piccoli, si accertava che il giovane fosse regolarmente comunicato, e battendo con le mani sulla borsa di pelle si riempiva l'anima. Divenne lentamente e inesorabilmente povera: la sua famiglia l'aveva oramai ripudiata e, tolte le proprieta` che le spettavano e che le furono consegnate, non la degno` piu` di un quattrino.

Ma le notti -notti lunghe, insonni, sfinite- lei era cosa, e interamente cosa del pretino. Egli, con schiuma di rabbia, la usava per ogni sorta di pasoliniana sozzura, ne fece letteralmente il suo lavacro, la costringeva a totali umiliazioni, strappandole i capelli con le mani piagate dalle stimmate, macerandole la pelle ancora morbida con le unghie gialle; e lei piangendo di sollievo subiva ogni depravazione, sapendo che il suo santo, insudiciandola, la purificava.

Finche` una di queste notti, mentre lei giaceva semistordita sul pavimento del bagno, coperta d'ogni possibile liquame, tossendo in un fetore indescrivibile, vestita solo di alcuni santini che le aveva lanciato addosso alla fine come coriandoli e che lei baciava nel sonno, Lidia udi` tum dei colpi, tum tum tum venire tum tum dalla cucina. Si ripuli` alla meglio con una doccia e corse in cucina preoccupata di un nonsoche, come tutte le donne. E vide il suo santo che, ancora seminudo, si piantava i chiodi nelle mani, una siringa d'anestetico a lato, il mercuriocromo nell'altra.

Urla. Urla infinite. Tutto il suo mondo venne invaso da una rabbia onnivora, verticale, di quelle che non provava ormai dai tempi dell'infanzia -e si` che alla rabbia e alla crisi era ben prona- la mangio`. Si scaravento` contro il pretino che s'infilzava le finte stimmate, lo butto` a terra, cerco` di ucciderlo a martellate: riusci` per mero caso a spezzargli un'ulna ma l'aggredito riusci` a fuggire, il chiodo ancora mezzo infilato nella sinistra. Lei, nuda e lurida, lo insegui`: non lo trovo`, torno` a casa, si fece una doccia di un giorno intero, il seguente lo passo` dormendo.

Non aveva piu` nulla, non aveva piu` nessuno, e mai piu` lo ebbe riavuto. Il pretino scomparve: se Lidia avesse avuto un televisore, l'avrebbe ritrovato dieci anni dopo, ospite d'onore di un'emittente locale di Crotone, accompagnato da una stolida e giovane mora particolarmente boccolosa e dalle caviglie grosse, con le identiche stimmate. Ma lei non ebbe piu` niente di tutto questo. Dovette abbandonare la casa -un appartamento ancora signorile non lontano da San Babila- l'anno dopo. Ogni tentativo di procacciarsi un lavoro le venne precluso, fondamentalmente, dalla propria totale incapacita`. Ora Lidia, i capelli biondi spenti, il volto flaccido e pustoloso, spinge un carrello alla stazione Cadorna di Milano. Grida, grida, sempre grida per ogni minima noia, interminabili e raccapriccianti bestemmie al Crocifisso, l'unico talento che le sia stato concesso.