Agath Than Hagh

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Una notte Agath Than Hagh sognò un enorme lago di sangue: bollente, interminabile, sotto un cielo rovente di fornace, l'universo pietrificato in un utero di magma. Immerso fino al busto, Agath galleggiava in piedi.

Agath aspirò l'aria, e l'aria non era più aria -era un gomitolo nauseante, incrostato: un'afa solida, muscolare, carnivora. Agath ascoltò, e non v'era un suono, ma solo il vibrare nelle ossa del bollire del sangue, e il ronzare nelle orecchie di chi si risveglia da uno svenimento. Agath guardò, e si accorse che era nudo: non aveva più i panni delicati da sacerdote, nè i gioielli ai polsi.

Urlò il nome di sua moglie, istintivamente -più per chiamarla a sè e proteggerla che per proteggere sè stesso, del resto lei aveva sedici anni- ma la voce si perse nel vuoto, come se mai fosse stata gridata: niente rispose. Stava per concludere che era in effetti solo, al centro del sangue (sempre che ci fosse un centro: se il lago era, come sembrava, infinito, ogni punto ne era il centro, e la distinzione sarebbe divenuta capziosa), quando, all'orizzonte (dunque c'era un orizzonte) traspariva una sagoma nera, che distinse solo in quanto più nera dello sfondo (cielo? muraglia? specchio?) contro cui si stagliava. Agath strinse gli occhi per quanto gli era possibile, cercando di distinguere qualcosa tra il vapore lontano e il sudore che gli bruciava dentro le palpebre. C'era una sagoma, c'era un volto: non vivo, ma una maschera, semisommersa nell'oceano. Immensa e immensamente lontana, come se fosse la testa di una statua, una testa più grande di tutte le montagne.

Quel momento il lago vibrò: ed era essere incollato dentro una pelle di tamburo liquida e rovente, che gli squassava il torace. E le vibrazioni dell'immenso lago acquisirono un suono, vennero modulate come una corda vocale terribile, e Agath riconobbe torcersi nelle sue costole e nel suo sterno le parole dell' Ahuna Vairya , la preghiera che Ahura Mazda intonò prima di creare il mondo:

athā ahu vairyo athā ratush ashāt chit hachā
vangheush dazdā manangho shyaothananām angheush Mazdāi
khshathremchā ahurāi â yim dregubyo dadat vāstārem

ma quando arrivò al terzo verso, la preghiera morì in un gorgoglio, in un gargarismo rauco e grottesco, che poi divenne un crepitio, un sibilo di una falena amplificato e riverberato miliardi di volte, da miliardi di gong. In quel momento qualcosa gli scoppiò il cuore, e capì in un conato che quella testa remota era Ahura Mazda, e che il sangue in cui era immerso era il sangue di Ahura Mazda, e che Ahura Mazda, il Dio, era morto.

"Ahura Mazda è morto, sacerdote."

La voce, pronunciata da nessuna gola e da ognuna, veniva dal cuore del lago -se era una voce, e non un battito d'ali, una coda sul fondo di un fango. La spina dorsale di Agath si torse, e ogni fibra venne percorsa da minuscole unghie, come di ragni di unghie che corrano su una pietra.

"Ahura Mazda è morto, sacerdote."

Agath non comprese, rimase con le labbra gonfie, aperte. Sbavava, ma non se ne rese conto. Poi gorgogliò rauco:

"È morto! Ma non può morire! Non può! E Mithra? Sei tu, ingannatore, sei tu Angra Mainyu che parli? Quale orribile daeva ha concepito tutto questo?"

Il lago si abbassò e si rialzò, come un petto che respirasse. Di nuovo, il sangue vibrò in ogni atomo della sua pelle, mentre l'intero universo era un cadavere gonfio della sua voce.

"Tutti sono morti, sacerdote. Tutti gli Dei sono morti. Sono immersi qua sotto. Se tu non anneghi, sacerdote, è perchè sei in piedi sul corpo di Angra Mainyu stesso."

Fu come se avessero spalancato un abisso sotto i piedi di Agath, un abisso in cui cadeva interminabilmente pur rimanendo immobile. Non vacillò, e si accorse che egli stesso, il suo stesso corpo non era che una statua, un involucro di creta dai lineamenti immobili -lui era dentro questo involucro bianco e argilloso, in qualche modo, ma non poteva muoverlo, non poteva fare nulla - solo sentisi torcere a ogni sillaba, a ogni tocco della voce di sangue in cui era immerso.

Voleva uscire. Voleva muoversi. Allora respirò. Forte. Ancora. Più forte. Qualcosa si spezzava. Respirò ancora, ancora, ancora quella colla velenosa che sostituiva l'aria, la soffiò via, sentì il guscio in cui era immerso incrinarsi all'altezza del petto. Più veloce. Più veloce. Finchè non sentiva solo il suono del proprio respiro: e poi ancora. Chiuse gli occhi. Sentì spezzarsi qualcosa. All'altezza dei reni. I reni. Le gambe. Deboli. Aprì gli occhi.

Agath vide sua moglie, in un angolo, che lo guardava terrorizzata. Sentì il peso della spada che aveva in mano, sentì il calore del sangue che ne colava, e non udiva più il pianto di sua figlia.