Ivan Sarnaskij

Ivan Sarnaskij, geologo. Nacque nel novembre 1929, in un villaggio stupido piantato al centro degli Urali. Non lo rivide più. Morì nella notte eterna dell'inverno antartico: lo trovarono fuori da una delle capanne della Base Novolazarevskaya, il fango ghiacciato sotto i piedi e intorno la neve interminabile, che i norvegesi battezzarono Terra della Regina Maud.

A un'ora qualsiasi di quella notte si addormentò sulla scrivania, lasciando a metà la descrizione di una foglia fossile. La testa unta sbatteva sul tavolo di noce a ogni respiro faticoso. Sogni marci lo tormentavano, anche se non poteva ricordarli mai: durante il peggiore di questi il gomito sbattè sulla ciotola zincata. Una cucchiaiata di minestra fredda sciabordò sulla lastra di roccia sedimentaria e sulla delicata impronta che ospitava.

Sarnaskij venne svegliato dallo sfrigolare; si accorse che la chiazza arancione fumava e bolliva sopra alla roccia nera. La roccia a sua volta si gonfiava e tendeva, come il parto di un cane, respirando e sfiatando. In pochi minuti il liquido si addensò e ritrasse dal centro della lastra di pietra, pulsando: al centro non era più un fossile, ma una foglia viva, verde, fresca, appena appoggiata. Il brodo era diventato un anello di carne e pelle rosa, come una falange circolare, coperta da pochi peli biondi. Brillava.

Dimentico della propria mascella spalancata, il geologo prese in mano la foglia, l'appoggiò al naso. Era reale, profumava di una foresta che non c'era più. L'impronta fossile era scomparsa dalla roccia. La ripose su di un foglio bianco, quasi terrorizzato dall'insudiciarla con le sue dita gialle. L'anello di carne bionda non emetteva un suono. Ma concentrò una luce al suo centro, come il fuoco di una lente, e sulla roccia venne marchiato a fuoco un nome impronunciabile, in caratteri ebraici.

Senza sapere come, svuotato dentro, si addormentò. Svegliandosi, era ancora notte, il vento ululava forse meno. L'anello vivo era ancora sullo scaffale, la foglia non smetteva di essere verde, la roccia fumava ancora, appena. Mentre il geologo chiudeva il quaderno (dove descrisse a matita, in linguaggio goffo, gli eventi della sera prima), due bottiglie di trielina si sbriciolarono sole sullo scaffale: dall'odore aromatico del solvente scaturì un secondo nome. Sarnaskij lo vergò sul quaderno, assieme al primo: e appena staccò la matita dal foglio, i due nomi si mescolarono insieme sotto i suoi occhi, e ne crearono un terzo. Un rettangolo nero circondò il nome, e un altro lo incrociò. La Croce così formata sorse dal foglio, con il suo legno insanguinato, il nome -che mescolava quello di Mosè, Gesù e Maometto in un groviglio mostruoso e perfetto- in rilievo con lettere di metallo.

Ivan pianse, pianse, pianse. Tossiva per il lezzo della trielina e del sangue rappreso. Soppesò la piccola croce: pesava molto di più del legno di cui pareva formata, e le fibre parevano quasi metalliche. Non ricopiò le lettere che firmavano quell'oggetto miracoloso, non foss'altro perchè si confondevano costantemente sotto i suoi occhi. Ma con la matita fradicia di lacrime scrisse ancora, con quell'istinto di certi scienziati di documentare ogni cosa.

Mentre miniava frasi verbose in piccole lettere corsive, si accorse che il foglio si riempiva con rapidità formidabile: aveva scritto molto più di quanto pensava. La sua scrittura, senza che se ne accorgesse, aveva composto dozzine e dozzine di versetti febbrili, che iniziavano con:

Sia Dio lodato sia Dio benedetto sia Dio l'unghia la gengiva e lo zoccolo. Sia Dio il fango il cranio la cenere. Sia Dio ogni tremore, sia Dio ogni grano di sale, e maledetto sia l'inchiostro che non verga il nome di Dio. Egli è immenso come la paura che avrai di Lui.

Nei giorni seguenti, Ivan Sarnaskij ricevette altri misteri. Una volta si svegliò con un lupo bianco privo di volto accanto a lui nel letto: accarezzarlo gli riempì il cuore di dolcezza. La lampada della sua stanza divenne sempre più forte, insensatamente forte, fino quasi ad accecarlo. La sua capanna era fradicia di luce, e lui sbatteva contro i mobili, con un fracasso bestiale a cui seguiva un nauseabondo olezzo di fiori ed erbe. Le rocce nei suoi cassetti si liquefecero e si rappresero sul pavimento in forma di un cuore di pietra. A ogni risveglio la notte era più ferma, e il suo quaderno conteneva nuovi versetti più fitti e misteriosi. Alcune frasi erano in una lingua a lui ignota. Altre lo tormentavano.